di Raffaele Bonanni.
L’Italia è un Paese esausto, seduto su una sedia a dondolo che ondeggia tra nostalgia e rassegnazione. Si culla nei ricordi, nel mito rassicurante di ciò che fu, incapace di decidere cosa vuole essere. È un’Italia che invecchia, che arretra, che si illude di poter conservare ciò che non è più. Un Paese che non sa più nascere, che non sa più credere nel lavoro, che ha smarrito il senso della produzione come motore della propria identità. La demografia non concede sconti. Se non si nasce, se non si lavora, se non si produce, si decade. E l’Italia sta già declinando, lentamente ma inesorabilmente.
Non è colpa degli anziani, ma di un sistema che ha bloccato ogni possibilità di rinnovamento. Il cuore del problema è culturale, oltre che politico. Un impianto sociale costruito per difendere rendite acquisite, per premiare l’anzianità più che il merito, per garantire ciò che c’era, ignorando ciò che sta arrivando. Il welfare italiano, nato in un’altra epoca, oggi premia l’inerzia e punisce l’iniziativa. Assiste più che emancipare, distribuisce più che investire. Gli anziani sono diventati massa critica elettorale e, inevitabilmente, orientano l’agenda politica verso la conservazione. Ma non si costruisce il futuro difendendo il passato. E non si dà forza ai giovani ripetendo formule che hanno esaurito il proprio senso.
In questo scenario, il lavoro ha perso la sua centralità. È stato degradato da motore di riscatto a spazio di frustrazione. I giovani non fuggono soltanto all’estero — e sono stati 377.000 solo nel 2023, più della metà laureati — ma fuggono anche mentalmente: dalla politica, dalla partecipazione, dalla fiducia. E hanno le loro ragioni. In un mercato dove le competenze non contano, dove le carriere sono bloccate da gerarchie stanche e intoccabili, dove l’impegno non paga, il merito diventa un ospite scomodo, se non indesiderato. In un tale contesto, il futuro non può che essere respinto, perché non trova casa, non trova spazi, non trova riconoscimento.
Intanto la realtà demografica stringe la sua morsa. L’Italia ha perso oltre un milione e mezzo di abitanti dal 2014, con un tasso di natalità sceso a 1,2 figli per donna, ben al di sotto della soglia di sostituzione. L’età media della popolazione si avvicina ai 47 anni, e il saldo naturale — nascite meno decessi — è ogni anno più negativo. Nel solo 2024, i morti hanno superato i nuovi nati di oltre centomila unità. Questo significa un futuro con meno lavoratori, meno contributi, meno energia sociale. Un Paese anziano senza giovani è un Paese fermo, che non sa nemmeno più dove andare.
Eppure, una risposta è possibile. Ma serve il coraggio della rottura. Il lavoro va liberato. Bisogna ripensare radicalmente il modo in cui il lavoro è concepito, organizzato, premiato. Vanno sgretolati gli automatismi, smascherate le rendite, scardinati i meccanismi che premiano la sola anzianità. Gli anziani attivi, che vogliono e possono ancora dare, devono essere coinvolti: non parcheggiati, ma valorizzati. Hanno competenze, memoria, lucidità. Ma devono uscire dalla logica del diritto garantito per entrare in quella della responsabilità condivisa. Chi può e vuole continuare a contribuire va incentivato, non ostacolato con penalizzazioni assurde o vincoli burocratici. Una società moderna non spreca risorse umane: le integra.
Allo stesso tempo, i giovani devono tornare al centro. Ma non con mance estemporanee o bonus elettorali, bensì con un progetto serio e stabile. Serve una formazione tecnica moderna e qualificata, più vicina al tessuto produttivo e all’innovazione. Occorre un accesso al lavoro meritocratico, trasparente, senza scorciatoie né raccomandazioni. Serve un salario dignitoso, con progressione legata alle competenze, non all’anzianità di servizio. Oggi un giovane italiano guadagna in media meno di 1.200 euro netti al mese all’ingresso, con scarse possibilità di crescita. Non è un’attrazione, è una fuga annunciata. E se il merito non viene riconosciuto, il Paese intero perde i suoi migliori cervelli.
Intorno a noi, il mondo corre. I Paesi giovani, ambiziosi e aggressivi — India, Indonesia, Turchia, Egitto — stanno affilando le armi della competizione. Producono, investono, formano milioni di nuovi lavoratori, conquistano mercati. Mentre noi difendiamo impieghi protetti, corporazioni, privilegi. Un Paese con una demografia ferma e una società bloccata diventa un bersaglio perfetto. Non servono invasioni o guerre: basta aspettare che si spenga da solo.
Secondo le stime ufficiali, entro il 2030 l’Italia avrà bisogno di oltre quattro milioni di nuovi lavoratori qualificati. Ma se non si cambia rotta ora, non li troverà. Non tra i giovani emigrati, che non torneranno a meno di un’inversione vera. Non tra gli immigrati, che vengono respinti o marginalizzati da una burocrazia cieca. Non tra gli anziani, spesso tagliati fuori da un mercato che li considera già fuori gioco. Il lavoro non è solo una questione economica: è una questione nazionale. È l’ultima frontiera della dignità collettiva.
Per questo serve un patto nuovo, vero, coraggioso. Un patto intergenerazionale. Dove i vecchi cedano spazio e trasmettano saperi. Dove i giovani portino energia, tecnologia, innovazione. Dove lo Stato garantisca un ambiente dove chi si spende viene premiato e chi resta fermo viene gentilmente superato. Dove non si livella tutto verso il basso, ma si alza l’asticella dell’impegno e della qualità.
Se questo non accade, resterà solo il silenzio. Il silenzio di un Paese che invecchia, che parla solo del passato, che smette di credere in sé. Un’Italia ripiegata su se stessa, che si racconta le glorie di ieri per non guardare in faccia l’arretratezza di oggi. Un’Italia che non cade di colpo, ma svanisce lentamente, fino a diventare invisibile. E irrilevante.
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