(Giusy Cirillo) Falkner William Cuthbert (1897-1962, Mississippi-USA), sceglie come nome d’arte Faulkner, accettando l’errore di aggiunta della u, da parte di uno dei suoi primi editori. Il filosofo Sartre lo definisce “un dio”, difatti, è stato uno dei più grandi scrittori americani del XX secolo, vincitore del Premio Nobel per la Letteratura nel 1949, maestro del Modernismo negli Stati Uniti e non solo.
Autore di poesie, racconti e romanzi, questi ultimi ambientati sovente nell’immaginaria contea di Yoknapatawpha, corrispondente alla zona di Lafayette (Mississippi), da lui stesso ideata; artificio creativo, che denota particolare abilità narrativa-stilistica e gli permette di spaziare nei più “vorticosi meandri labirintici”, come mi piace immaginare, della psiche umana e nella profondità della coscienza emotiva, creando originali cammei in cui i personaggi vivono anche esistenziali monologhi interiori, che si traducono in “mezzo di passaggio” per rinascere e affermare la potenza di una vita nuova, da costruire con la piena consapevolezza dell’enigma vitale in cui siamo da sempre immersi.
I temi scelti dall’autore sono molto articolati e argomentati con dovizia di particolari, quasi certosina: quello forte del razzismo, declinato in varie sfumature, la memoria collettiva, la colpa, la decadenza, il rifiuto di sé, la repulsione sessuale, la coercizione, la maldicenza, l’efferatezza, il furore o violento fanatismo religioso, mentre il fulcro ruota costante intorno al rapporto affascinante tra le due dimensioni tanto diverse, quanto complementari, quella femminile e quella maschile.
Lo stile, a giusta ragione, definito sperimentale e, al contempo, davvero evocativo per i colori, gli odori, gli stati d’animo e la riproduzione specifica di ambientazioni, diventa strumento di conoscenza lucida e appassionata, che attraversa i protagonisti e li rende più vivi, interpretabili e vicini al lettore. Tutto ciò conferisce allo scrittore una capacità universalistica che gli permette di far rivivere, come se si trattasse di pura realtà, le tante e ricercate vicende narrate, le quali interessano i territori del Sud, troppo spesso etichettati come animati da uomini e donne di indole semplice, non raffinata o non istruita, lontani dal vivere “come si conviene ai più”, ossia con rettitudine, dignità, senso del dovere, rispetto per l’altro, solidarietà, per citarne solo alcuni, e invece Faulkner attraverso la sua scrittura li affranca da questo quasi stereotipo di “vivere con semplicità” e li eleva a persone che, seppur, alcune di loro, dominate da sentimenti e azioni poco ortodosse, trovano la forza, la volontà di reagire in modo consapevole e non per garantirsi un futuro migliore. Perciò, l’artista risulta essere il più letto e studiato perché magistrale è il suo penetrare, attraverso una prosa vorticosa, lo spirito umano senza distinzioni per far emergere la verità e quella di ogni personaggio presente nel romanzo, pubblicato per la prima volte nel 1932, quando Egli per spiegare il titolo del suo settimo scritto dice: «Nella mia terra la luce ha una sua qualità particolarissima; fulgida, nitida, come se venisse non dall’oggi ma dall’età classica». Pertanto, il lettore attento scorge che in esso si intrecciano le vicende di molti archetipi di persone: superbi, miserabili, eterni, mentre il fulcro del racconto è incentrato su due vicende che interessano i due veri protagonisti, davvero emblematici, Lena Grove, giovane bianca, spontanea, ingenua, determinata, in viaggio per trovare il padre del suo bambino non ancora nato e Joe Christmas, che si allontana dalla famiglia adottiva per cercare le sue vere origini perché anche se di pelle bianca sospetta di essere negro. Questo capolavoro, quindi, si presenta come alquanto complesso, profondo, avvincente e rende “tangibile” a chi legge, la rappresentazione delle innumerevoli tensioni, contraddizioni, lacerazioni, sussulti dell’animo umano ed ecco che diventa, come mi piace definirlo, “teatro monumentale dell’umanità”.
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